Intervista a Claudio Paccagnella, procuratore della multinazionale Contenur S.L.

Continuiamo il nostro viaggio nella plastica riciclata in uso nella Pubblica Amministrazione. Il recente Decreto Ministeriale 256 obbliga i produttori di contenitori di rifiuti, i cosiddetti cassonetti, all’utilizzo, per almeno il 50%, di plastica derivante dalla raccolta differenziata urbana. Purtroppo questo vincolo, pensato per accelerare la transizione ecologica, sembrerebbe inapplicabile a detta degli addetti ai lavori e il rischio è che tra qualche anno potremmo non avere più cassonetti in buone condizioni, ma solo quelli vecchi. Questa volta ne abbiamo parlato con il dottor Claudio Paccagnella, procuratore della multinazionale Contenur S.L., terza in Europa tra i fornitori di prodotti e servizi pensati per ottimizzare la gestione dei rifiuti.

La Discussione: Dottor Paccagnella, voi lavorate nel settore dal 1984. Ritenete efficaci i nuovi CAM (Criteri Ambientali Minimi) fissati dal Ministero dell’Ambiente la scorsa estate?

Claudio Paccagnella: Il nostro gruppo fattura circa 150 milioni di euro l’anno, produce circa 1.300.000 cassonetti l’anno, serve più di 4.000 clienti e conta più di 1.000 dipendenti. Quindi l’azienda ha una lunga esperienza e una presenza in Europa importante. Ci reputiamo degli esperti nella produzione dei cassonetti per la raccolta dei rifiuti e a tutto ciò aggiungiamo parecchie certificazioni rivolte alla qualità e sostenibilità del prodotto e alla rispondenza del prodotto alle richieste e le esigenze del mercato. Anche prima di questa estate per nostra policy utilizzavamo una percentuale di plastica riciclata ben superiore a quella fissata dai precedenti CAM del 2014. I nostri cassonetti sono già realizzati con polietilene ad alta densità con un processo ad iniezione, di cui un po’ più del 50% proviene da polietilene riciclato. Quindi, se guardiamo solo la percentuale di polietilene riciclato, noi rientreremmo nei CAM attuali.

LD: Deduco che a voi non abbiano creato nessun problema?

C.P: Il problema c’è eccome, perché chi ha scritto il decreto ha aggiunto una frase che non è tecnicamente realizzabile. Chiunque lo può confermare, chiunque produca cassonetti in polietilene per iniezione. Non può, cioè, utilizzare la plastica derivante dai servizi di raccolta dei rifiuti su strada e rientrante nella raccolta differenziata.

LD: La frase di troppo, quindi, è che i rifiuti plastici debbono provenire esclusivamente dalla raccolta urbana, cioè dalla nostra differenziata?

C.P: Corretto. Nella plastica che i cittadini gettano si trova un mix di polimeri che tecnicamente non possono essere trasformati nel Polietilene ad alta densità necessario nella produzione di contenitori che rispettino la normativa UNI EN. Provi a pensare se uno sollevasse un cassonetto e questo si dovesse rompere spargendo tutti i rifiuti per strada o cadesse in testa all’operatore che danno sarebbe.

LD: Da dove allora si dovrebbe prendere la plastica riciclabile?

C.P: Dai cassonetti in disuso, ma non si rientrerebbe più nei requisiti richiesti dagli attuali CAM e non si potrebbe partecipare agli appalti pubblici. I vecchi contenitori non rientrano nella raccolta differenziata del Consorzio Conai, l’unico a certificarne la provenienza urbana.

LD: Un bel danno per le imprese?

C.P: Solo in questa settimana ci sono state tre gare d’appalto, annuali o biennali, da 5 Milioni di euro sulle quali i nostri legali si stanno interrogando se possiamo partecipare o no. Nel dubbio, a molte abbiamo dovuto già rinunciare.

LP: Ma se tecnicamente nessuno può riutilizzare quel materiale, da dove provengono i cassonetti che vediamo nelle strade?

C.P: Dai vecchi contratti stipulati prima di questa estate, ma alla fine, se non si interviene a modificare il testo il problema di porrà.

LP: Se ho capito bene basterebbe togliere l’aggettivo “urbani” dopo rifiuti e si risolverebbero tutti i problemi?

C.P: Non proprio. Esiste un altro ostacolo che riguarda praticamente tutti i produttori tranne uno. È quello relativo alle sole certificazioni ammesse: la “Remade in Italy” e la “Made green in Italy”. Entrambe certificano che il prodotto sia stato realizzato in Italia. Ma i produttori del settore italiani hanno tutti dislocazioni in Europa. Come dicevo, a noi risulta un solo produttore presente esclusivamente sul territorio italiano. Il risultato è che anche senza quei marchi non è possibile partecipare alle gare o rifornire i service della Pubblica Amministrazione.